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L’epoca delle passioni tristi

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Misuriamo la felicità in relazione alla velocità della nostra auto, ci esaltiamo per ogni aumento del PIL, facciamo  la fila al gelo per cellulari sempre piu’ performanti, ostentiamo il possesso per avere uno status, ci facciamo le foto delle vacanze in luoghi esotici (rigorosamente pagate con credito al consumo) per fare invidia agli amici.

Ogni giorno corriamo, abbiamo tutte le informazioni che vogliamo, parliamo a macchine che ci obbediscono prone e servizievoli.

Non è tutto quello che serve per essere felici?

 Eppure …. eppure siamo sempre piu’ tristi ….

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E non solo noi, ma anche e soprattutto le nuove di generazioni.

Si, quelle alle quali abbiamo dato un mondo che corre, che non pensa, che il TVB piu’ cuore che pulsa su watshapp è molto meglio di una lettera d’amore.

Quelli li, quelli che disprezziamo e rinneghiamo  fortemente …. come ogni nostra creazione mal riuscita.

Analizza molte contraddizioni di questo tempo e lo stato delle nuove generazioni il pregevole lavoro di due psichiatri, Miguel Benasayag e Gerard Schmit, autori de:  “L’epoca delle passioni tristi”.

 “Viviamo in un’epoca dominata da quelle che Spinosa chiamava le “passioni tristi”: un senso pervasivo di impotenza e incertezza che ci porta a rinchiuderci in noi stessi, a vivere il mondo come una minaccia …… I problemi dei più giovani sono il segno visibile della crisi della cultura moderna occidentale fondata sulla promessa del futuro come redenzione laica. Si continua a educarli come se questa crisi non esistesse, ma la fede nel progresso è stata ormai sostituita dal futuro cupo, dalla brutalità che identifica la libertà con il dominio di sé, del proprio ambiente, degli altri. Tutto deve servire a qualcosa e questo utilitarismo si riverbera sui più giovani e li plasma. Per uscire da questo vicolo cieco occorre riscoprire la gioia del fare disinteressato, dell’utilità dell’inutile, del piacere di coltivare i propri talenti senza fini immediati.”

Dovremmo cercare un nuovo parametro per la felicità, il “fare disinteressato, dell’utilità dell’inutile, del piacere di coltivare i propri talenti senza fini immediati”.

 Una sorta di “inversione a U” o comunque un cambio di passo.

Basterebbe solo tornare all’essenza delle cose quindi, a scoprirsi importanti al di là del reddito, della macchina, dell’immagine sociale: essere vivi ed essere legittimati a sentirsi bene, senza dover sottostare ad aspettative indotte e bisogni funzionali non certo a noi stessi.

Un mondo nel quale la semplicità prevalga sulle teorie astruse di economisti e di pubblicitari in cerca di idee che ci facciano comprare tutto ciò che non ci serve.

Sarebbe bello, basterebbe spegnere il cellulare o la tv e farsi una passeggiata immersi nella natura e nei suoi ritmi.

Algoritmi, cookies e facebook permettendo, naturalmente.

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